Antonio Linde

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Antonio Linde, conosciuto nel mondo dell’arte con lo pseudonimo di Arif, nasce a Godella, nella provincia di Valencia, il 9 maggio 1945. La sua vita, così come la sua pittura, è segnata dal viaggio: fisico, interiore, esistenziale. Ha vissuto in Spagna e in Italia, soprattutto a Matera, città che lo ha accolto per anni e in cui ha lasciato un segno profondo, prima di rientrare nella sua terra natale. Si è spento nel 2020, all’età di 75 anni, lasciando dietro di sé un percorso artistico intenso, personale e poco convenzionale.

Non si forma nelle accademie, non frequenta scuole tradizionali: Arif è un autodidatta, un uomo che ha imparato a dipingere esplorando il mondo e sé stesso. Inizia a dipingere alla fine degli anni Sessanta, quasi per necessità espressiva, utilizzando ciò che trovava a portata di mano. Non tele e cornici eleganti, ma cartoni di scatole di frutta, pezzi di legno recuperati, lamiere, vecchie porte, oggetti scartati. Il materiale povero diventa parte viva dell’opera, con le sue crepe, la sua usura, la sua rugosità. Linde non lo copre, non lo nasconde: lo mette in risalto, lo trasforma in valore estetico e simbolico.

Nelle sue opere convivono materia e colore. Usa smalti, oli, polveri metalliche, talvolta persino purpurina o foglia d’oro e d’argento, facendo vibrare le superfici in modi inattesi. Le figure che nascono dai suoi lavori sono stilizzate, primitive, quasi arcaiche: sembrano apparizioni che emergono da uno spazio astratto, che respirano dentro campi cromatici vivi, intensi, luminosi. Sono immagini che non appartengono a un tempo preciso, sospese fra il sogno e la memoria, fra mito e vita quotidiana.

Chi guarda un suo quadro percepisce immediatamente una sensazione di stupore e meraviglia. Non è un caso: lo stesso Arif parlava spesso della pittura come di un’esperienza di “asombro”, di “maravilla”, come il continuo nascere di presenze interiori che diventano visibili. Nei suoi quadri non si trovano storie lineari, ma piuttosto frammenti di un viaggio interiore. Forse è per questo che, accanto all’artista, si sente sempre anche l’uomo che ha percorso il mondo: dall’India al Messico, dal Marocco all’Italia. Ogni luogo, ogni incontro, ogni superficie trovata per strada si sedimenta nella sua opera, che diventa così un diario visivo di un’esistenza nomade e aperta. Negli anni Ottanta la sua voce originale lo porta a essere notato anche nel dibattito artistico italiano. Achille Bonito Oliva, il critico che teorizzò la Transavanguardia, lo invita a partecipare a esposizioni accanto a nomi celebri come Cucchi, Chia, Clemente e Paladino. Eppure Arif resta sempre ai margini dei movimenti ufficiali: non per esclusione, ma per scelta. La sua arte non si lascia ingabbiare dalle correnti, segue piuttosto il ritmo del suo sentire, la libertà del gesto, il bisogno di restare fedele alla propria ricerca personale.

Quello che colpisce delle sue opere è la loro energia sensoriale. Non sono semplici immagini da guardare: sono superfici che chiamano a un contatto, che raccontano il tempo, l’usura, la casualità. Ogni materiale, ogni supporto porta con sé una memoria: un vecchio portone, un cartone consumato, un pezzo di latta diventano il punto di partenza di un universo pittorico nuovo. Così l’oggetto scartato si trasforma in poesia visiva, e la materia più umile si fa portatrice di luce e significato.

Antonio Linde, Arif, non è stato un artista da mode o riflettori. Il suo nome non è legato a un mercato aggressivo o a strategie mediatiche, ma piuttosto al ricordo vivo di chi lo ha incontrato, alle comunità artistiche che lo hanno ospitato, alle persone che hanno avuto la fortuna di imbattersi nei suoi lavori. La sua arte resta come un invito a guardare il mondo con occhi nuovi, a lasciarsi sorprendere da ciò che è scarto, da ciò che non ha valore apparente, scoprendo in esso una bellezza nascosta.

In fondo, tutta la sua opera sembra ripetere la stessa lezione: la meraviglia non è mai lontana, ma dentro le cose semplici, dentro ciò che ci circonda, se solo sappiamo vederlo.